Ieri è nato ed è già in rete il sito del Comitato Regionale lazio della FIK.
Sito che si occuperà di gestire l'organizzazione del consiglio regionale del lazio
che si occuperà di organizzare le attività sportive, stage, al territorio laziale.
La super visione del Commissario Regionale Dott. Alessandro Amati e il supporto tecnico di Fabio Di Bari
per allineare e far partire in carreggiata il sito, facilitando la comunicazione con tutti gli affiliati delle varie palestre, dando voce a tutte le attività che si svolgeranno durante l'anno.
Un ringraziamento particolare a
Fabio Di Bari.
WWW.LAZIOFEDERKARATE.IT
venerdì 23 gennaio 2009
mercoledì 21 gennaio 2009
Anno nuovo cinture nuove
mercoledì 14 gennaio 2009
C.R. LAZIO FIK AL VIA
Di A.Bisio 12 gennaio 2009
Dott.Alessandro Amati
Cari amici, grazie per essere intervenuti, innanzi tutto buon 2009!
Così il Commissario Regionale Lazio della FIK, dott. Alessandro Amati, ha dato il via nella riunione del C.R.L. FIK nello storico e prestigioso Circolo Canottieri Roma sabato 10 gennaio 2009. Ogni anno nuovo porta con sé aspettative e progetti: vi auguro di realizzarne almeno qualcuno.
Sarebbe già un buon traguardo. Sarà un anno importante anche per la storia del karate italiano: tra pochissimo la Federazione avrà una rete capillare sul territorio Nazionale completamente attiva. Ma di questo avremo modo di parlarne più diffusamente nelle prossime settimane.
Per adesso mi limito (dopo aver illustrato corsi, programmi tecnici e didattici) a formare insieme a voi (Società rappresentate 26) la struttura organizzativa (parziale) del nostro Comitato Regionale. Dopo un dibattito all’insegna della meritocrazia e democrazia all’unanimità, l’organigramma del Lazio, è così composto:
Direttore Tecnico Regionale: Maestro Raniero Abeille.
Commissario Uff. di Gara Regionale: Arbitro Internazionale Dario Pieributi.
Responsabile Presidenti di Giuria: sig. Paolo Di Bello.
Responsabile Sanitario Regionale: Dott. Donato Galardo.
Addetto Stampa Regionale: sig. Fabio Di Bari.
Non so voi, ma io credo che la politica (anzi, l’ars politica) non si possa improvvisare.
Non basta la passione, che certamente ho, per sedere da un giorno all’altro sulla “poltrona” del C.R.L. , io spero, anzi confido sulla vostra fattiva collaborazione, sarò il Presidente di tutti, sono certo che in tanti la pensano come me, e questa sarà l’occasione giusta, per poterlo dimostrare con i fatti.
Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi. Per noi di eventskarate, il vecchio adagio vale di sicuro. In bocca al lupo e alla prossima!
Dott.Alessandro Amati
Cari amici, grazie per essere intervenuti, innanzi tutto buon 2009!
Così il Commissario Regionale Lazio della FIK, dott. Alessandro Amati, ha dato il via nella riunione del C.R.L. FIK nello storico e prestigioso Circolo Canottieri Roma sabato 10 gennaio 2009. Ogni anno nuovo porta con sé aspettative e progetti: vi auguro di realizzarne almeno qualcuno.
Sarebbe già un buon traguardo. Sarà un anno importante anche per la storia del karate italiano: tra pochissimo la Federazione avrà una rete capillare sul territorio Nazionale completamente attiva. Ma di questo avremo modo di parlarne più diffusamente nelle prossime settimane.
Per adesso mi limito (dopo aver illustrato corsi, programmi tecnici e didattici) a formare insieme a voi (Società rappresentate 26) la struttura organizzativa (parziale) del nostro Comitato Regionale. Dopo un dibattito all’insegna della meritocrazia e democrazia all’unanimità, l’organigramma del Lazio, è così composto:
Direttore Tecnico Regionale: Maestro Raniero Abeille.
Commissario Uff. di Gara Regionale: Arbitro Internazionale Dario Pieributi.
Responsabile Presidenti di Giuria: sig. Paolo Di Bello.
Responsabile Sanitario Regionale: Dott. Donato Galardo.
Addetto Stampa Regionale: sig. Fabio Di Bari.
Non so voi, ma io credo che la politica (anzi, l’ars politica) non si possa improvvisare.
Non basta la passione, che certamente ho, per sedere da un giorno all’altro sulla “poltrona” del C.R.L. , io spero, anzi confido sulla vostra fattiva collaborazione, sarò il Presidente di tutti, sono certo che in tanti la pensano come me, e questa sarà l’occasione giusta, per poterlo dimostrare con i fatti.
Nemo propheta in patria, dicevano gli antichi. Per noi di eventskarate, il vecchio adagio vale di sicuro. In bocca al lupo e alla prossima!
lunedì 12 gennaio 2009
3° International Championship 2° Memorial ai Caduti di Nassiriya 28/29 Marzo
Il club Ayasa
3°CAMPIONATO INTERNAZIONALE
2° MEMORIAL CADUTI DI NASSIRIA
Sabato 28 e domenica 29 Marzo 2009
N.B.: Scrivere in stampatello. Il modulo può essere scaricato dal sito: www.ayasagoju.info
o richiesto agli indirizzi e-mail: marongiu.vittorio@alice.it, clubsamur@tiscali.it.
L’ISCRIZIONE DEVE PREVENIRE ENTRO IL 15-03-2009
Mobile, 339-5884878, 349-6862493.
Ogni dettaglio lo potete trovare sul sito:
www.ayasagoju.info
3°CAMPIONATO INTERNAZIONALE
2° MEMORIAL CADUTI DI NASSIRIA
Sabato 28 e domenica 29 Marzo 2009
N.B.: Scrivere in stampatello. Il modulo può essere scaricato dal sito: www.ayasagoju.info
o richiesto agli indirizzi e-mail: marongiu.vittorio@alice.it, clubsamur@tiscali.it.
L’ISCRIZIONE DEVE PREVENIRE ENTRO IL 15-03-2009
Mobile, 339-5884878, 349-6862493.
Ogni dettaglio lo potete trovare sul sito:
www.ayasagoju.info
giovedì 8 gennaio 2009
Trofeo “Goku Cup”
25 Gennaio 2009
Gara riservata ai ragazzi fino ai 14 anni
Gara composta di 3 prove distinte : percorso, gioco tecnico con colpitore e Kata.
La classe BAMBINI cinture bianche fino a 7 anni, partecipa ad esibizione non competitiva sul percorso e kata
(senza classifica) sarà consegnata loro una medaglia di partecipazione .
ORARIO GARA e CATEGORIE :
ore 08:30 controllo atleti
Ore 09:00 inizio gara
Marrone a NERA
D D1
Fino a / 12 Anni 13 - 14
ore 10:00 controllo atleti
GIALLA e ARANCIO
B B1 B2 B3
Ore10:30 Inizio gara
Fino a 8 Anni 9 - 10 11 - 12 13 - 14
cinture BIANCHE / BIANCHE - GIALLE
BA A A1 A2 Ore10:30
Inizio gara
Solo bianche fino a 7 anni 8 - 10 11 - 12 13 - 14
VERDE e BLU
ore 08:30 controllo atleti
Ore 09:00 inizio gara
C /C1 / C2
Fino a / 10 Anni / 11 - 12 13 - 14
La gara si svolgerà presso il PalaLuiss – Via Martino Longhi 2 (Piazza Mancini) - Roma
Le iscrizione dovranno pervenire tramite E-Mail al seguente indirizzo: paolo.dibello@latelefonicasrl.it
entro il 20 Gennaio 2009.
La quota di partecipazione di 15 € dovrà essere versata sul luogo di gara dal responsabile della Società, il dirigente della società dovrà versare la quota di partecipazione ANCHE degli atleti iscritti e non presenti. Per informazioni rivolgersi al Signor Claudio Simonetti
Tel. 338-3807107
• Saranno premiati con medaglia i primi 4 atleti classificati per ogni categoria.
• A tutti gli Atleti verrà consegnato un gadget di partecipazione.
Bambini cinture Bianche fino a 7 anni (Categoria BA)
Lo scopo è di coinvolgere coloro che hanno appena iniziato l’attività puntando più sulla partecipazione che sulla competizione. I piccoli atleti faranno un percorso ed un kata (facoltativo) affine alle loro capacità e non ci sarà classifica finale. Ogni partecipante sarà premiato con medaglia.
REGOLAMENTO:
GIOCO TECNICO CON COLPITORE
La prova consiste in 30” di libera combinazione di tecniche di gambe e di braccia. Viene usato un palloncino di spugna, sospeso all’altezza del viso. I giudici valuteranno l’esecuzione tecnica e la capacità di controllo di ogni atleta. La valutazione è espressa in punteggio, da un minimo di 10 ad un massimo di 30 punti.
Per tutte le classi:
- Tecniche di gambe ammesse, esclusivamente eseguite con l’arto arretrato:
calcio circolare (mawashi-geri);
calcio circolare frontale rovescio (ura-mawashi-geri);
calcio circolare con rotazione dorsale (ushiro-ura-mawashi-geri).
- Tecniche di braccia ammesse:
pugno diretto (kizami-tsuki)
pugno diretto controlaterale (gyaku-tsuki);
pugno rovescio (ura-ken).
SCHEMA DEL PERCORSO (categorie fino a 12 anni)
1) Capovolta avanti
2) Slalom tra i paletti
3) Balzi a zig-zag a piedi uniti in avanzamento
4) Superamento libero dell’ostacolo
5) Superamento libero dell’ostacolo
6) Andatura in quadrupedia prona (viso rivolto verso il basso)
7) Skip alternato
8) Balzi a piedi uniti
9) Corsa finale
SCHEMA DEL PERCORSO (categorie età 13 e 14 anni: A2 – B3 – C2 – D1)
1) Capovolta avanti
2) Slalom tra i paletti
3) Capovolta saltata (con tuffo)
4) Salti a piedi pari
5) Balzi a zig-zag a piedi uniti in avanzamento
6) Balzi con appoggio monopodale avanti e laterali
7) Corsa finale.
KATA
Ogni atleta eseguirà un solo kata.
L’esecuzione dei kata è tokui (libera).
La valutazione avverrà a punteggio come nelle altre prove da 10 a 30.
PERCORSO
Il tempo ottenuto nel percorso verrà sottratto dal totale del punteggio ottenuto nelle altre due prove (kata e colpitore). Ogni errore come ad esempio l’abbattimento di un ostacolo, sarà sanzionato aggiungendo 2 secondi di penalità al tempo finale registrato.
Errori di tipo tecnico, come ad esempio saltare una fase, non rispettare l’esecuzione nel modo indicato, comporterà anch’essa una sanzione aggiungendo 2 secondi al tempo finale registrato.
CLASSIFICA FINALE
La classifica finale sarà determinata dalla somma dei punteggi della prova del gioco tecnico con palloncino e del Kata meno il punteggio del percorso.
mercoledì 7 gennaio 2009
Arbitri si nasce… non si diventa!!!
Di Edgardo Sogno
La federazione, la Commissione Arbitri, i Maestri e… soprattutto i poveri atleti del karate italiano, si sono ormai accorti di avere a che fare con un grosso, grossissimo problema: gli arbitri!
Qualcuno, leggendo queste prime righe del mio articolo, dirà: “Ecco la vecchia polemica contro quei poveretti in giacca blu, comune a tutti gli sport”.
No, ribatto io, magari fosse così semplice. Il problema è reale e… si vede.
Il “grido” di protesta si leva da sempre più parte a qualche arbitro è già stato minacciato; un paio sono stati malmenati ed ad uno è stata danneggiata l’auto.
Il malessere c’è e non affrontarlo significa solo accrescerlo e… rimandare la “resa dei conti”…
I bravi e pazienti membri della Commissione nazionali arbitri stanno facendo del loro meglio intervenendo ad ogni occasione e organizzando stage di aggiornamento continui… ma lotta degli ottimi Tanini e Antonacci è una impresa impari…
E si, perché anche il migliore agricoltore, per quanto lavori e si prodighi con competenza, non può raccogliere gran chè se semina sulle pietre.
Il problema dell’ultima generazione di arbitri è semplicemente che non sa arbitrare!!!
Nei venti anni tra il 1980 ed il 2000, la Federazione aveva creato una classe arbitrale di prim’ ordine ottimi arbitri, sempre presenti ad ogni gara (e quindi ricchi di esperienza), quasi tutti erano anche ottimi maestri o ex atleti agonisti.
C’ avevano l’occhio… come dicono a Roma. Certo a volte, essendo anche tecnici, potevano avere dei… “conflitti d’interesse”, ma sapevano certamente arbitrare bene: quasi tutti sono diventati internazionali, universalmente molto apprezzati.
Gli arbitri attuali non hanno palestre dove insegnare e, tranne un paio di eccezioni, non hanno mai praticato agonismo; non si allenano quasi mai con il kimono e quei che continuano ad andare dal loro vecchio maestro lo fanno un paio di volte alla settimana al corso “amatori”, dopo che sono usciti dall’ufficio.
Sono arbitri di 2^ categoria o appena promossi di 1^ categoria: magari sanno l regolamento a memoria ma le tecniche… nun le vedono… proprio.
Negli ultimi due anni erano “affiancati”, ad ogni gara nazionale, da alcuni internazionali più esperti: da quest’anno, a parte uno un poco più “esperto” su ogni area, sono loro i “protagonisti” dei tatami nostrani. E, purtroppo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, Qualche maestro si arrabbia e da in escandescenze, ma non lo fanno a posta, semplicemente non sono… “ancora pronti”.
La preoccupazione di molti è che, con queste basi, non lo saranno mai.
Né si può sperare che con la pratica migliorino: primo, chi l’occhio… nun c’è l’ha… difficilmente lo potrà mai avere, nemmeno… si se mette gli occhiali…!!! Secondo, questi arbitri non sono assimilabili a quelli di calcio, pallavolo o pallacanestro che possono fare esperienza arbitrando tutte le domeniche, magari nei campionati minori e, man mano, i migliori dopo alcuni anni vanno ad operare nelle massime Divisioni. Questi nostri arbitri, fanno il media quattro gare l’anno (un paio in regione ed un paio nazionali) e quindi, mentre fanno danni tremendi tra i nostri atleti di punta, necessiterebbero di 15/20 anni per maturare una esperienza pari ad un anno di un loro collega di calcio o pallavolo. Terzo punto, non ci sembra giusto, mettendoci dalla parte delle società che pagano centinaia di euro per arrivare a Roma o magari a Loano o Monza o dei poveri atleti che sudano per anni in palestra, che questi “arbitri” si facciano la loro formazione sulla “pelle” di questi poveri disgraziati. Volete degli esempi?
Durante i recenti campionati di kata a Loano, quasi tutti i giudici di sedia, alzavano le bandierine un …secondino… dopo il fischio, buttando lo sguardo alla bandierina dell’arbitro centrale, notoriamente “più esperto” (essendo nazionale da tre anni o internazionale “B” di sedia europeo o della federazione del Mediterraneo, sic!!! Ai Campionati Assoluti di Ostia, arbitri “ tremebondi” pregavano di “fare silenzio” alcuni coach che stavano dando consigli ai propri atleti sulle tecniche da usare: qualcuno faceva loro notare che nessun regolamento vietava di parlare con il proprio assistito. A questo punto, il solerte capo tatami dichiarava, con compita autorità che si, il maestro aveva ragione ma che poteva parlare… a bassa voce… A bassa voce al Palafijlkam, con 600 atleti parlano, 450 tecnici che urlano, con 60 arbitri, che gridano, con 500 spettatori che fanno il tifo, con i presidenti di giuria che chiamano con il microfono la coppia successiva… indovina chi deve “parlare piano” perché altrimenti da fastidio all’arbitro? Ma il tecnico, naturalmente, ma non perché dia fastidio (infatti la settimana dopo agli internazionali di Monza nessun mondiale bada minimamente alle parole dei coach) ad alcuno ma prchè lo spaurito arbitro… che non sa arbitrare… invece di pensare a fare il suo mestiere sta a sentire quello che dicono i tecnici e non riesce a concentrarsi.
Così, non sapendo fare il suo mestiere, pensa bene di impedire al coach di fare il suo, con evidente doppio danno per i poveri atleti che rimangono, alla fine, le vere vittime di questa… “scarsa professionalità”.
Tanti auguri ai bravi e pazienti Piero e Roberto: avete di fronte a voi tanto, ma tanto da lavorare per cercare di elevare questa classe arbitrale.
La federazione, la Commissione Arbitri, i Maestri e… soprattutto i poveri atleti del karate italiano, si sono ormai accorti di avere a che fare con un grosso, grossissimo problema: gli arbitri!
Qualcuno, leggendo queste prime righe del mio articolo, dirà: “Ecco la vecchia polemica contro quei poveretti in giacca blu, comune a tutti gli sport”.
No, ribatto io, magari fosse così semplice. Il problema è reale e… si vede.
Il “grido” di protesta si leva da sempre più parte a qualche arbitro è già stato minacciato; un paio sono stati malmenati ed ad uno è stata danneggiata l’auto.
Il malessere c’è e non affrontarlo significa solo accrescerlo e… rimandare la “resa dei conti”…
I bravi e pazienti membri della Commissione nazionali arbitri stanno facendo del loro meglio intervenendo ad ogni occasione e organizzando stage di aggiornamento continui… ma lotta degli ottimi Tanini e Antonacci è una impresa impari…
E si, perché anche il migliore agricoltore, per quanto lavori e si prodighi con competenza, non può raccogliere gran chè se semina sulle pietre.
Il problema dell’ultima generazione di arbitri è semplicemente che non sa arbitrare!!!
Nei venti anni tra il 1980 ed il 2000, la Federazione aveva creato una classe arbitrale di prim’ ordine ottimi arbitri, sempre presenti ad ogni gara (e quindi ricchi di esperienza), quasi tutti erano anche ottimi maestri o ex atleti agonisti.
C’ avevano l’occhio… come dicono a Roma. Certo a volte, essendo anche tecnici, potevano avere dei… “conflitti d’interesse”, ma sapevano certamente arbitrare bene: quasi tutti sono diventati internazionali, universalmente molto apprezzati.
Gli arbitri attuali non hanno palestre dove insegnare e, tranne un paio di eccezioni, non hanno mai praticato agonismo; non si allenano quasi mai con il kimono e quei che continuano ad andare dal loro vecchio maestro lo fanno un paio di volte alla settimana al corso “amatori”, dopo che sono usciti dall’ufficio.
Sono arbitri di 2^ categoria o appena promossi di 1^ categoria: magari sanno l regolamento a memoria ma le tecniche… nun le vedono… proprio.
Negli ultimi due anni erano “affiancati”, ad ogni gara nazionale, da alcuni internazionali più esperti: da quest’anno, a parte uno un poco più “esperto” su ogni area, sono loro i “protagonisti” dei tatami nostrani. E, purtroppo, i risultati sono sotto gli occhi di tutti, Qualche maestro si arrabbia e da in escandescenze, ma non lo fanno a posta, semplicemente non sono… “ancora pronti”.
La preoccupazione di molti è che, con queste basi, non lo saranno mai.
Né si può sperare che con la pratica migliorino: primo, chi l’occhio… nun c’è l’ha… difficilmente lo potrà mai avere, nemmeno… si se mette gli occhiali…!!! Secondo, questi arbitri non sono assimilabili a quelli di calcio, pallavolo o pallacanestro che possono fare esperienza arbitrando tutte le domeniche, magari nei campionati minori e, man mano, i migliori dopo alcuni anni vanno ad operare nelle massime Divisioni. Questi nostri arbitri, fanno il media quattro gare l’anno (un paio in regione ed un paio nazionali) e quindi, mentre fanno danni tremendi tra i nostri atleti di punta, necessiterebbero di 15/20 anni per maturare una esperienza pari ad un anno di un loro collega di calcio o pallavolo. Terzo punto, non ci sembra giusto, mettendoci dalla parte delle società che pagano centinaia di euro per arrivare a Roma o magari a Loano o Monza o dei poveri atleti che sudano per anni in palestra, che questi “arbitri” si facciano la loro formazione sulla “pelle” di questi poveri disgraziati. Volete degli esempi?
Durante i recenti campionati di kata a Loano, quasi tutti i giudici di sedia, alzavano le bandierine un …secondino… dopo il fischio, buttando lo sguardo alla bandierina dell’arbitro centrale, notoriamente “più esperto” (essendo nazionale da tre anni o internazionale “B” di sedia europeo o della federazione del Mediterraneo, sic!!! Ai Campionati Assoluti di Ostia, arbitri “ tremebondi” pregavano di “fare silenzio” alcuni coach che stavano dando consigli ai propri atleti sulle tecniche da usare: qualcuno faceva loro notare che nessun regolamento vietava di parlare con il proprio assistito. A questo punto, il solerte capo tatami dichiarava, con compita autorità che si, il maestro aveva ragione ma che poteva parlare… a bassa voce… A bassa voce al Palafijlkam, con 600 atleti parlano, 450 tecnici che urlano, con 60 arbitri, che gridano, con 500 spettatori che fanno il tifo, con i presidenti di giuria che chiamano con il microfono la coppia successiva… indovina chi deve “parlare piano” perché altrimenti da fastidio all’arbitro? Ma il tecnico, naturalmente, ma non perché dia fastidio (infatti la settimana dopo agli internazionali di Monza nessun mondiale bada minimamente alle parole dei coach) ad alcuno ma prchè lo spaurito arbitro… che non sa arbitrare… invece di pensare a fare il suo mestiere sta a sentire quello che dicono i tecnici e non riesce a concentrarsi.
Così, non sapendo fare il suo mestiere, pensa bene di impedire al coach di fare il suo, con evidente doppio danno per i poveri atleti che rimangono, alla fine, le vere vittime di questa… “scarsa professionalità”.
Tanti auguri ai bravi e pazienti Piero e Roberto: avete di fronte a voi tanto, ma tanto da lavorare per cercare di elevare questa classe arbitrale.
E dopo le "abbuffate"?
Fonte: www.perdipesosystem.it
Ormai è risaputo che esagerare con le calorie durante le Feste non è un vero e proprio toccasana per la linea e per la salute!
Infatti sono proprio le abbuffate il rovescio della medaglia del periodo di Natale e Capodanno.
Si inizia con la cena aziendale, poi di seguito la cena della Vigilia, il pranzo di Natale le feste dell'ultimo dell'anno, il gran pranzo del primo dell'anno..... E oltre a mangiare troppo (c'è chi addirittura riesce ad ingerire nell'arco di questo periodo fino a 40.000 Kcal.) si scelgono anche alimenti grassi e nocivi che influiscono negativamente sullo stato della propria salute, compromettendo il benessere di cuore, fegato, reni, arterie....
Ma a tutto c'è rimedio!
La prima contromisura da non adottare è lo squilibrio opposto: nel modo più assoluto non bisogna cedere ai sensi di colpa e straziarsi con digiuni e diete drastiche.
In questo caso non faremmo altro che enfatizzare gli errori commessi con le abbuffate.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, una fondamentale regola di base: ogni giorno dobbiamo soddisfare il fabbisogno calorico che il nostro organismo ci richiede.
Può sembrare un paradosso, ma molto spesso, sono i digiuni e le diete drastiche a portare il nostro corpo ad ingrassare.
Il segreto per ottenere uno stato di benessere generale sta nel distribuire diligentemente le calorie giornaliere non solo nelle giuste quantità, ma soprattutto scegliendo gli alimenti in base alla loro funzione.
Ad esempio, sappiamo bene che la funzione principale dei carboidrati è quella energetica, quindi sarebbe auspicabile non nutrirsi di pasta, pane, pizza, dolci prima di andare a letto.
Tutte le calorie che l'organismo non utilizza, inevitabilmente vengono trasformate ed immagazzinate sotto forma di grassi.
La soluzione più sensata ed efficace è di nutrirsi sempre in modo gustoso ma sano.
Infatti per mettere a riposo stomaco ed intestino può essere utile prediligere frutta fresca e di stagione, verdure, minestroni, legumi, pesce o carni bianche per i menù dei 5-7 giorni successivi al periodo in questione.
Infine si dovrebbe sempre tenere presente che il movimento è l'arma migliore per combattere gli eccessi.
Se si pratica una leggera attività fisica, (basterebbe passeggiare tutti i giorni per 30 minuti di buon passo, ma anche nuotare, sciare, correre, ballare, andare in bicicletta) ci si può permettere qualche peccato di gola in più senza correre il rischio di ingrassare.
Ormai è risaputo che esagerare con le calorie durante le Feste non è un vero e proprio toccasana per la linea e per la salute!
Infatti sono proprio le abbuffate il rovescio della medaglia del periodo di Natale e Capodanno.
Si inizia con la cena aziendale, poi di seguito la cena della Vigilia, il pranzo di Natale le feste dell'ultimo dell'anno, il gran pranzo del primo dell'anno..... E oltre a mangiare troppo (c'è chi addirittura riesce ad ingerire nell'arco di questo periodo fino a 40.000 Kcal.) si scelgono anche alimenti grassi e nocivi che influiscono negativamente sullo stato della propria salute, compromettendo il benessere di cuore, fegato, reni, arterie....
Ma a tutto c'è rimedio!
La prima contromisura da non adottare è lo squilibrio opposto: nel modo più assoluto non bisogna cedere ai sensi di colpa e straziarsi con digiuni e diete drastiche.
In questo caso non faremmo altro che enfatizzare gli errori commessi con le abbuffate.
Non bisogna mai dimenticare, infatti, una fondamentale regola di base: ogni giorno dobbiamo soddisfare il fabbisogno calorico che il nostro organismo ci richiede.
Può sembrare un paradosso, ma molto spesso, sono i digiuni e le diete drastiche a portare il nostro corpo ad ingrassare.
Il segreto per ottenere uno stato di benessere generale sta nel distribuire diligentemente le calorie giornaliere non solo nelle giuste quantità, ma soprattutto scegliendo gli alimenti in base alla loro funzione.
Ad esempio, sappiamo bene che la funzione principale dei carboidrati è quella energetica, quindi sarebbe auspicabile non nutrirsi di pasta, pane, pizza, dolci prima di andare a letto.
Tutte le calorie che l'organismo non utilizza, inevitabilmente vengono trasformate ed immagazzinate sotto forma di grassi.
La soluzione più sensata ed efficace è di nutrirsi sempre in modo gustoso ma sano.
Infatti per mettere a riposo stomaco ed intestino può essere utile prediligere frutta fresca e di stagione, verdure, minestroni, legumi, pesce o carni bianche per i menù dei 5-7 giorni successivi al periodo in questione.
Infine si dovrebbe sempre tenere presente che il movimento è l'arma migliore per combattere gli eccessi.
Se si pratica una leggera attività fisica, (basterebbe passeggiare tutti i giorni per 30 minuti di buon passo, ma anche nuotare, sciare, correre, ballare, andare in bicicletta) ci si può permettere qualche peccato di gola in più senza correre il rischio di ingrassare.
LA CINTURA BIANCA E ROSSA
Di FERDINANDO BALZARRO
“…è un modo per distinguermi… dai gradi inferiori…”. Questa, per sommi capi, la risposta ricevuta dal mio ex allievo quando, non senza un’ombra di deluso stupore, gli chiedevo ragione del fatto che si premurasse, nelle occasioni da egli stesso definite “ufficiali”, cingere ai propri fianchi, di over-cinquantenne, la fiammante cintura “bicolore”.
Per carità! Nulla da eccepire sul fatto, ormai acclarato, che in talune importanti federazioni, una volta insigniti del prestigioso grado di sesto Dan, si sia autorizzati (peraltro senza alcuna attendibile motivazione storica)* ad indossare sopra il candido e ben stirato karategi la vistosa fascia di spesso cotone pressato.
In fondo, quella di potersi e volersi “distinguere” dai gradi bassi variando il colore della cintura, è da tempo prassi utilizzata e condivisa da tutte le scuole di arti marziali operanti in occidente. La “cintura nera”, soprattutto, universalmente segna una principale linea di demarcazione tra la lunga fase del “principiante” e quella, ben più lunga, di “esperto” Karateka.
Un vero e proprio mito la “cintura nera”. Infatti non dimenticheremo quanto sia tuttora presente nell’immaginario collettivo la certezza che, chiunque se ne fregi, possa legittimamente meritare la fama di invincibile combattente. Certo, certo! L’esigenza di sottolineare con concreta evidenza le “differenze”, è presente, in forma più o meno eclatante, in altre numerose realtà socio-culturali: penso ai ministri di tutte le religioni, ai militari di tutti gli eserciti. Persino all’interno di certe congreghe o conventicole o sette segrete, non mancano precisi segni di distinzione che impongono rigorose distanze tra i fedeli adepti e la carismatica figura del Gran Maestro. Segni, appunto.
Sin dalle sue lontane origini l’uomo ha avuto bisogno di chiari Segni per riconoscere dogmi religiosi o gerarchie militari o gradino di casta, relativi alla Tribù di appartenenza.
E di Segni e Simboli e Riti, evidentemente abbiamo ancor oggi necessità se vogliamo superare, con serena disinvoltura, le minuterie del vivere quotidiano. Vabbé, non è poi così grave, anzi! Se, come qualcuno ha provocatoriamente asserito, Segni, Simboli, Riti e Liturgie, servono solo ad attribuire importanza alle cose che non ne hanno, possiamo perfino sorriderci sopra. Con alcune eccezioni però. Una su tutte: l’Arte.
Quando si parla di “Arte”, quando con rispettosa soggezione ci muoviamo tra le sue onde di luce, il segno, il simbolo, si fa autentico.
Lo scarto tra ciò che si è e ciò che si fa, come d’incanto, si annulla. Il problema del doversi distinguere perde di totale consistenza.
L’Arte non abbisogna di espedienti distintivi per elevarsi sul mondo. L’Arte non ha bisogno di preziosi abiti talari o sfolgoranti decorazioni o sfarzosi copricapo dorati. Non né ha bisogno poiché sarà proprio il mondo a consacrarla, sarà il mondo a stabilirne l’indiscussa supremazia.
A questo punto, pur consapevole di forzare il ragionamento, chiedo preventivamente che mi si perdoni il paragone. Il karate, inteso nella sua accezione di Arte Marziale.
Il Karate, considerato dal punto di vista del raggiungimento della Maestria, anch’esso, come qualunque altra espressione artistica, non può essere riconosciuto e banalizzato attraverso la convenzionale esibizione di segni e simboli. Sono altresì persuaso (e non penso di essere il solo) che, allo stato attuale, il “Dan” non corrisponda più al valore effettivo di chi ne è portatore (inteso dal punto di vista della maestria).
Nella maggioranza dei casi il conferimento del “Dan” superiore, si è ridotto a un oggettivo riconoscimento di meritoria anzianità, di encomiabile attiva e fedele militanza nella medesima organizzazione… e questo va bene! Purché lo si ammetta però. E purché, più o meno in buona fede, non si indugi nel comodo equivoco che basti una cintura variopinta a dimostrare quanto alto e irraggiungibile sia il tasso di classe e conoscenza di chi l’indossa. Ma adesso vorrei richiamare la vostra attenzione su quello che definirei un vero e proprio “Trionfo del Paradosso”. Come mio costume, anche in questo caso, mi assumo tutta la responsabilità di quanto mi accingo a dichiarare, convinto comunque che difficilmente potrò essere smentito. Ebbene, fateci caso, i maggiori fautori nonché effettivi portatori della citata cintura bicolore, risultano essere proprio quegli stessi maestri che, con le parole e con i fatti, hanno da tempo abiurato, nonché criticato e irriso, per non dire demonizzato, tutto ciò che nel Karate odora di tradizione. Sempre costoro, infatti, non fanno mistero di considerare quei “tapini”, ancora cocciutamente ostinati a preservarne i presunti valori, poco più di ammuffiti reperti archeologici o incorreggibili nostalgici di pratiche obsolete di fatto destinate all’estinzione. Perciò è possibile, che sempre questi maestri, con buona pace delle tradizioni, indossino (ostentino) con estrema e un po’ tronfia nonchalance, Karategi solcati da striature blu lungo le spalle, scarpe da ginnastica di ultima generazione, perfino importanti orologi stretti sul polso. Però, però, attenzione! Guarda caso, appena si parla di Dan, eccoli pronti, sempre loro, a rivalutare per l’occasione, i già vituperati riti del passato, cingendo attorno al punto vita (un po’ appesantito dagli anni) la fatidica cintura. Che dire?
Ma niente, niente! Le polemiche stanno a zero. La mia vuole solo limitarsi ad una normale osservazione, una semplice constatazione.
Certi fatti, definiamoli di “costume”, collegati al nostro variegato mondo, si commentano da sé. Ovvero, ognuno è libero di interpretarli nel modo che riterrà più opportuno nonché affine alla propria esperienza e alla propria sensibilità, anche se sono certo, non mancherà chi si sentirà toccato e offeso.
Pazienza! Per quanto mi concerne, quando mi accade di osservare i miei Maestri eseguire quei loro gesti arcani e sapienti, sono felice di veder ondeggiare lungo i loro fianchi, ancorché sbiadita dal tempo e dall’usura, la solita bella gloriosa mai esausta cintura nera.
*Le cinture sono sempre state bianche sino al raggiungimento della nera.
La prima cintura bianca e rossa fu quella donata da Jigoro Kano (judo) a Shura Saigo. Sempre nel Judo, Mikonosuke (Maestro operante in Francia), creò la classe degli Shihan (6/7 Dan) distinguendola con la cintura bianca e rossa.
Non tutte le scuole di Karate hanno imitato tale prassi. Nello stile Shotokan, in particolare, non sono noti casi di Maestri giapponesi che ne abbiano fatto uso.
Nota di (G.S.B).
“…è un modo per distinguermi… dai gradi inferiori…”. Questa, per sommi capi, la risposta ricevuta dal mio ex allievo quando, non senza un’ombra di deluso stupore, gli chiedevo ragione del fatto che si premurasse, nelle occasioni da egli stesso definite “ufficiali”, cingere ai propri fianchi, di over-cinquantenne, la fiammante cintura “bicolore”.
Per carità! Nulla da eccepire sul fatto, ormai acclarato, che in talune importanti federazioni, una volta insigniti del prestigioso grado di sesto Dan, si sia autorizzati (peraltro senza alcuna attendibile motivazione storica)* ad indossare sopra il candido e ben stirato karategi la vistosa fascia di spesso cotone pressato.
In fondo, quella di potersi e volersi “distinguere” dai gradi bassi variando il colore della cintura, è da tempo prassi utilizzata e condivisa da tutte le scuole di arti marziali operanti in occidente. La “cintura nera”, soprattutto, universalmente segna una principale linea di demarcazione tra la lunga fase del “principiante” e quella, ben più lunga, di “esperto” Karateka.
Un vero e proprio mito la “cintura nera”. Infatti non dimenticheremo quanto sia tuttora presente nell’immaginario collettivo la certezza che, chiunque se ne fregi, possa legittimamente meritare la fama di invincibile combattente. Certo, certo! L’esigenza di sottolineare con concreta evidenza le “differenze”, è presente, in forma più o meno eclatante, in altre numerose realtà socio-culturali: penso ai ministri di tutte le religioni, ai militari di tutti gli eserciti. Persino all’interno di certe congreghe o conventicole o sette segrete, non mancano precisi segni di distinzione che impongono rigorose distanze tra i fedeli adepti e la carismatica figura del Gran Maestro. Segni, appunto.
Sin dalle sue lontane origini l’uomo ha avuto bisogno di chiari Segni per riconoscere dogmi religiosi o gerarchie militari o gradino di casta, relativi alla Tribù di appartenenza.
E di Segni e Simboli e Riti, evidentemente abbiamo ancor oggi necessità se vogliamo superare, con serena disinvoltura, le minuterie del vivere quotidiano. Vabbé, non è poi così grave, anzi! Se, come qualcuno ha provocatoriamente asserito, Segni, Simboli, Riti e Liturgie, servono solo ad attribuire importanza alle cose che non ne hanno, possiamo perfino sorriderci sopra. Con alcune eccezioni però. Una su tutte: l’Arte.
Quando si parla di “Arte”, quando con rispettosa soggezione ci muoviamo tra le sue onde di luce, il segno, il simbolo, si fa autentico.
Lo scarto tra ciò che si è e ciò che si fa, come d’incanto, si annulla. Il problema del doversi distinguere perde di totale consistenza.
L’Arte non abbisogna di espedienti distintivi per elevarsi sul mondo. L’Arte non ha bisogno di preziosi abiti talari o sfolgoranti decorazioni o sfarzosi copricapo dorati. Non né ha bisogno poiché sarà proprio il mondo a consacrarla, sarà il mondo a stabilirne l’indiscussa supremazia.
A questo punto, pur consapevole di forzare il ragionamento, chiedo preventivamente che mi si perdoni il paragone. Il karate, inteso nella sua accezione di Arte Marziale.
Il Karate, considerato dal punto di vista del raggiungimento della Maestria, anch’esso, come qualunque altra espressione artistica, non può essere riconosciuto e banalizzato attraverso la convenzionale esibizione di segni e simboli. Sono altresì persuaso (e non penso di essere il solo) che, allo stato attuale, il “Dan” non corrisponda più al valore effettivo di chi ne è portatore (inteso dal punto di vista della maestria).
Nella maggioranza dei casi il conferimento del “Dan” superiore, si è ridotto a un oggettivo riconoscimento di meritoria anzianità, di encomiabile attiva e fedele militanza nella medesima organizzazione… e questo va bene! Purché lo si ammetta però. E purché, più o meno in buona fede, non si indugi nel comodo equivoco che basti una cintura variopinta a dimostrare quanto alto e irraggiungibile sia il tasso di classe e conoscenza di chi l’indossa. Ma adesso vorrei richiamare la vostra attenzione su quello che definirei un vero e proprio “Trionfo del Paradosso”. Come mio costume, anche in questo caso, mi assumo tutta la responsabilità di quanto mi accingo a dichiarare, convinto comunque che difficilmente potrò essere smentito. Ebbene, fateci caso, i maggiori fautori nonché effettivi portatori della citata cintura bicolore, risultano essere proprio quegli stessi maestri che, con le parole e con i fatti, hanno da tempo abiurato, nonché criticato e irriso, per non dire demonizzato, tutto ciò che nel Karate odora di tradizione. Sempre costoro, infatti, non fanno mistero di considerare quei “tapini”, ancora cocciutamente ostinati a preservarne i presunti valori, poco più di ammuffiti reperti archeologici o incorreggibili nostalgici di pratiche obsolete di fatto destinate all’estinzione. Perciò è possibile, che sempre questi maestri, con buona pace delle tradizioni, indossino (ostentino) con estrema e un po’ tronfia nonchalance, Karategi solcati da striature blu lungo le spalle, scarpe da ginnastica di ultima generazione, perfino importanti orologi stretti sul polso. Però, però, attenzione! Guarda caso, appena si parla di Dan, eccoli pronti, sempre loro, a rivalutare per l’occasione, i già vituperati riti del passato, cingendo attorno al punto vita (un po’ appesantito dagli anni) la fatidica cintura. Che dire?
Ma niente, niente! Le polemiche stanno a zero. La mia vuole solo limitarsi ad una normale osservazione, una semplice constatazione.
Certi fatti, definiamoli di “costume”, collegati al nostro variegato mondo, si commentano da sé. Ovvero, ognuno è libero di interpretarli nel modo che riterrà più opportuno nonché affine alla propria esperienza e alla propria sensibilità, anche se sono certo, non mancherà chi si sentirà toccato e offeso.
Pazienza! Per quanto mi concerne, quando mi accade di osservare i miei Maestri eseguire quei loro gesti arcani e sapienti, sono felice di veder ondeggiare lungo i loro fianchi, ancorché sbiadita dal tempo e dall’usura, la solita bella gloriosa mai esausta cintura nera.
*Le cinture sono sempre state bianche sino al raggiungimento della nera.
La prima cintura bianca e rossa fu quella donata da Jigoro Kano (judo) a Shura Saigo. Sempre nel Judo, Mikonosuke (Maestro operante in Francia), creò la classe degli Shihan (6/7 Dan) distinguendola con la cintura bianca e rossa.
Non tutte le scuole di Karate hanno imitato tale prassi. Nello stile Shotokan, in particolare, non sono noti casi di Maestri giapponesi che ne abbiano fatto uso.
Nota di (G.S.B).
Breve storia del termine karate: tra tradizione e innovazione
di Fabrizio Comparelli
Ogni praticante di karate sa come il nome dell’arte da lui praticata significhi fondamentalmente ‘mano nuda/vuota’. Il termine kara, tradotto con nuda/vuota, andrebbe inoltre inteso in un doppio senso: il primo, che si potrebbe definire ‘pratico’, qualificherebbe il karate come arte marziale praticata senza l’ausilio di armi; il secondo, che potrebbe definirsi ‘spirituale’, intenderebbe il fine ultimo della pratica del karate, ossia il raggiungimento della consapevolezza buddista della vacuità del mondo quale esso ci appare (il mondo fenomenico della filosofia).
È mia intenzione cercare di esemplificare quanto più chiaramente possibile il percorso che ha condotto alcuni grandi maestri, Funakoshi sensei in primis anche se non il primo in senso assoluto, a stabilire la grafia attuale del termine karate (fondamentalmente nel periodo che va dal 1930 ai prodromi della seconda Guerra Mondiale): si ricordi che questa grafia non è che l’anello conclusivo di una catena di tentativi più o meno riusciti, rivolti ad inquadrare un’arte non meglio specificamente identificata anche nella sua patria di origine: l’isola di Okinawa.
Va subito detto che la storia dell’evoluzione del termine karate si intreccia non solo con il senso estetico o con la necessità di identificazione specifica di un’arte ormai anche in Giappone divenuta di dominio pubblico, ma con vere e proprie istanze nazionalistiche e di ideologie politico-militari allora dominanti in Giappone. Come per le biografie di quei maestri che erano stati i maestri di Funakoshi (almeno i più importanti: Matsumura, Azato e Itosu), anche per quanto riguarda la grafia del termine karate ad Okinawa prima del 1900, ci si deve affidare a congetture basandosi per lo più sui ricordi orali tramandati da questi maestri. Obbligatorio è iniziare con quanto riferisce Funakoshi, il maggiore responsabile, benché non unico, dell’innovazione nella grafia del termine karate e dell’interpretazione ‘mano nuda/vuota’. Questi ci conferma almeno due cose: ad Okinawa non esisteva alcun documento scritto che riportasse il termine karate (nel senso ‘mano nuda’), ed inoltre questa arte marziale poteva essere indicata con modi diversi, tutti però indicanti la madre-patria culturale, sia del karate sia di Okinawa stessa: la Cina. Com’è noto, una delle insidie della lingua Giapponese è l’omofonia delle parole, ossia parole indicate da kanji diversi si pronunciano con un identico suono. Per capire quale sia il significato corretto di un suono, un giapponese deve basarsi sul contesto della frase o vedere necessariamente il kanji in questione. Karate è un tipico esempio di questa ambiguità. La seconda parola del termine non pone alcuna difficoltà: te vuol dire ‘mano’; ma kara è un termine più insidioso, infatti per lo stesso suono esistono due kanji: uno che indica il ‘nudo/vuoto’, ed un altro che indica il carattere cinese attribuito alla dinastia Tang, e per estensione quindi la Cina stessa (karate sarebbe dunque ‘mano cinese’ o ‘arte cinese’, con oscillazione di letture ‘kara’/ ‘to’, per cui anche tote era uno dei modi più frequenti di indicare il karate). Per di più, ad Okinawa il termine karate non doveva essere quello prevalente. I maestri chiamavano l’arte semplicemente te o bushi no te, ‘mano di guerriero’. Anche Funakoshi non è in grado di dire quando comparve per la prima volta l’uso di chiamare karate il te okinawense, tanto più non è in grado di dirci se il kanji utilizzato fosse quello di ‘vuoto/nudo’ o quello che indicava la Cina. Eppure, nonostante la calcolata prudenza di Funakoshi (che scrive quando ormai si trova in Giappone, il che non è privo di importanza, come si vedrà), possiamo con fiduciosa certezza affermare che il kanji non poteva essere altro che quello indicante la Cina. Del resto, gli antichissimi kata che portano i nomi cinesi di Kushanku (Kosukan-dai, Kanku-dai) e Wanshu
(Empi), testimoniano l’antica influenza che la Cina ebbe nei confronti delle tecniche autoctone di combattimento okinawense chiamate genericamente te.
Wanshu sarebbe il kata più antico di tutti: risalirebbe al 1683, anno in cui l’uomo che portava questo nome lo insegnò intorno all’area Tomari, dove rimase confinato fino al 1871, anno in cui il kata passò anche nell’area shuri, ad Itosu e poi nel karate giapponese.
Shoshin Nagamine colloca l’arrivo di Kushanku ad Okinawa nel 1761: in quest’epoca avrebbe dato una dimostrazione della sua abilità marziale e tramandato il kata che ancora oggi porta il suo nome, pur con le eccezionali varianti tra scuola e scuola intervenute nel corso di questi secoli. Ma ad Okinawa il karate veniva anche chiamato Okinawa-te o to-de, ‘mano cinese’, dove il termine to in giapponese può anche essere pronunciato kara.
Se è vero dunque che, grosso modo, il karate è il frutto dell’evoluzione del te okinawense unitamente agli importantissimi influssi del to-de cinese, era certamente impossibile che con karate si intendesse altro da ‘mano cinese’.
Salvo ulteriori acquisizioni, pare che il primo ad utilizzare il kanji giapponese indicante ‘vuoto/nudo’ fu Hanashiro Chomo, il quale con Kentsu Yabu era stato uno degli eroi di Okinawa nella guerra contro la Cina. Hanashiro era stato uno dei pochi indigeni ad essere arruolato nelle truppe okinawensi, e poteva essere stato quindi influenzato dall’ideologia militare nipponica fortemente nazionalistica, che mirava a screditare e svalutare tutto ciò che era cinese. Ma si trattava probabilmente di un caso isolato che non ebbe alcun seguito, poiché i maestri anziani non erano partiti per la guerra, e la Cina continuava per loro ad essere l’antica madre patria culturale, benché ormai Okinawa fosse divenuta una provincia Giapponese.
Le cose dovettero tuttavia cambiare, e di molto, quando Funakoshi fu invitato dal maestro Kano in Giappone a diffondere la sua arte. Il maestro okinawense dunque si trasferì dall’isoletta natale a Tokio. L’insegnamento del karate, nonostante l’arretratezza propedeutica e metodologica rispetto ad altre arte marziali come il judo e il kendo, ormai già popolari e utilizzate a fini militari anche in tornei organizzati, suscitò un notevole interesse. Si impose allora per Funakoshi il problema della nomenclatura, non solo del termine karate (che sapeva troppo di Cina per essere culturalmente accettato dal nazionalistico Giappone) ma anche dei nomi dei kata, tutti foneticamente cinesi. Funakoshi giustamente notava come il karate okinawense praticato nella sua gioventù era già qualcosa di profondamente diverso dal kung fu cinese dal quale derivava. Inoltre la semplificazione avvenuta in Giappone per esigenze didattiche, fece giustificare la ricerca di una terminologia alternativa. Tuttavia il processo di giapponesizzazione non fu immediato. Nel 1922 Funakoshi pubblicava un libro intitolato Ryukyu kenpo karate (‘il karate: pugilato di Ryukyu’), seguito nel 1924 da un’altra pubblicazione intitolata Rentan goshin karate jutsu (‘l’arte del karate: rafforzamento energetico ed autodifesa’).
Gli ideogrammi sono ancora quelli che indicano la Cina.
Quando ormai il karate si era sviluppato all’interno delle Università giapponesi, Funakoshi propose la seguente denominazione: Dai Nippon Kenpo karate-do, ossia ‘la via del Grande Metodo di pugilato giapponese a mani nude’, utilizzando finalmente l’ideogramma ‘nudo/vuoto’. I Giapponesi potevano essere soddisfatti. Non solo le origini cinesi, ma anche quelle okinawensi, comunque troppo ‘paesane’, erano cancellate. Ma ad Okinawa nessuno era soddisfatto della scelta operata da Funakoshi. Tuttavia per raggiungere la popolarità ed allargare la conoscenza del karate nella madre patria giapponese, il cambiamento era necessario, i tempi lo imponevano: la guerra con la Cina era archiviata, ma gli scenari internazionali erano torbidi, la seconda Guerra Mondiale sarebbe scoppiata di lì a poco, e al Giappone serviva una arte marziale efficace e completamente integrata nel suo sistema ideologico. Il karate era divenuto ‘mano nuda/vuota’. Funakoshi però non era uno sprovveduto, né un uomo di bassa levatura morale. I suoi maestri erano stati grandi maestri,
e gli avevano insegnato che il karate non era solo una forma di jutsu di tecnica pura e semplice, ma una sorta di do, confucianemente intesa come via per il miglioramento di se stessi. Funakoshi lo sapeva e per meglio giustificare la sua operazione culturale, attirò l’attenzione su alcune scritture del buddismo zen dove compariva proprio il termine kara ‘vuoto’, indicando il percorso seguito dallo studente zen che mira a liberarsi dalle sovrastrutture ideologiche e mentali per raggiungere alla fine il vuoto, o assenza di pulsioni. Questa doppia innovazione, la sostituzione del kanji kara e l’introduzione del concetto filosofico di do irritarono non pochi rappresentanti del karate okinawense. In primo luogo, a Okinawa l’uso delle armi non era affatto estraneo al karate, anzi i due insegnamenti andavano spesso di pari passo. Il termine ‘mani nude’ quindi non rendeva ragione della vera pratica del karate okinawense. Ma Funakoshi riuscì ad ottenere l’approvazione dei suoi connazionali motivando la sua scelta anche con l’introduzione del concetto filosofico di kara come ‘vacuità’. Eppure il karate okinawense non aveva niente a che vedere né col buddismo né con lo zen, filosofie che al quel tempo non erano seguite ad Okinawa, infatti Funakoshi non insistette mai troppo su queste astrazioni filosofiche troppo monastiche, quasi ‘iniziatiche’, del suo karate (a differenza di tanti santoni e creduloni occidentali). Per Funakoshi la ‘vacuità’ era anche un arma: «lo studente di karate-do deve rendere la sua mente vuota di personalismo o cattiveria, nello sforzo di reagire in maniera opportuna verso qualunque cosa possa trovarsi davanti». Inoltre la tendenza volta a trasformare il karate da jutsu a do (o meglio a shugyo: un concetto indicante un’austera disciplina mirata al miglioramento fisico e spirituale dell’uomo), era in nuce già praticata dai maestri okinawensi della generazione precedente quella di Funakoshi, soprattutto da Itosu, Azato e Higaonna.
Nel 1935 Funakoshi scrive il suo testo più importante Karate do kyohan, ‘testo di insegnamento del karate-do’. Il karate okinawense rimarrà ancora a lungo confinato in patria, mentre quello di Funakoshi, lo Shito-ryu di Mabuni, il Wado-ryu di Otsuka (l’unico giapponese tra i fondatori di stili: per ironia del destino sarà anche l’unico a mantenere i nomi originali cinesi dei kata!), il Goju-ryu di Miyagi, faranno il giro del mondo e faranno conoscere il karate giapponese, la ‘mano nuda/vuota’.
Anche nel libro a due mani Mabuni-Nakasone [allievo di Kanken Toyama, allievo di Itosu-Yabu] (Kobo-Kempo Karate-do, 1938, trad, spagn. 2002p. 25) gli autori si sforzano di dimostrare come il fatto che il termine kara indicasse la Cina non è importante. Importante è invece che gli Okinawensi fossero in tutto Giapponesi, per cui il kempo di Okinawa sarebbe la forma specifica del kempo giapponese praticato ad Okinawa. Presentare il kempo okinawense come kempo cinese è un errore, e infatti le due forme sono molto differenti. Il kempo cinese avrebbe solamente influito sul kempo autonomo, senza esserne parte preponderante. Secondo Mabuni-Nakasone, anche il ju-jitsu risentirebbe dell’influsso del kempo cinese, che in Giappone si sarebbe evoluto nel ju-jitsu classico e poi confluito nel judo, ad Okinawa avrebbe aiutato lo sviluppo del karate. In conclusione, quando si iniziò a parlare di karate (ossia quando l’arte venne introdotto nelle scuole agli inizi del 900), fu un deplorevole errore quello di utilizzare il kanji kara nel senso di Cina. Il nome più appropriato sarebbe bushi-no-te (pugno del guerriero/strategia del guerriero), ma dal momento che ormai è impossibile cambiare, meglio di tutti il karate ‘mano-nuda’.
L’argomentazione è speciosa, e non tiene conto di quello che, grazie agli studi successivi, si è dimostrato sempre più evidente, ossia che i kata di karate, almeno quelli fondamentali e comunemente ritenuti i più antichi, di entrambe le aree, sono cinesi, nel nome e nella leggenda della loro origine. Che poi siano stati profondamente rielaborati dai maestri okinawensi tanto da diventare irriconoscibili rispetto alle forme originarie cinesi (nell’impossibilità di un confronto diretto coi kata praticati ad Okinawa nell’Ottocento, saremmo tentati di dire che il processo è stato quello della semplificazione), sarà da imputare non solo all’iniziativa personale dei singoli maestri, ma da vere e proprie semplificazioni e fraintendimenti, ingenerati fra l’altro dalla diversissima mentalità che contraddistingueva i cinesi (mistici), e gli okinawensi (più pragmatici) II l’evoluzione dei kata.
Le motivazioni apportatrici di tali cambiamenti sono molteplici. Le due fondamentali, a mio parere, sono fondamentalmente le seguenti. Come espressione di movimenti, il karate si evolve (e si deve evolvere!) di pari passo con l’evoluzione della medicina sportiva e della scienza cinesiologica; del resto, tutte le attività fisiche migliorano di anno in anno i loro modelli di prestazione, e nessuno ha mai trovato nulla da ridire a riguardo. Si potrebbe obiettare che si pensi solo all’agonismo.
Non è vero. La scienza dello sport ha il compito di preoccuparsi dell’attività motoria ad ogni età (ed è una conquista comunque relativamente recente), dal bambino alla persona anziana. Ogni maestro si dovrebbe preoccupare della prosecuzione della pratica lungo lo sviluppo della vita di un uomo, e non concentrandosi unicamente all’età da gara. Da tale scienza e da tali prospettive, la visione educatrice e sportiva del karate non deve rifuggire. A volte si sente dire: quel grande maestro era un medico… per cui questo stile è meglio di quello il cui fondatore era, per esempio, un architetto. Non può essere vera in senso assoluto nemmeno quest’affermazione. Un medico di cent’anni fa, non è certo un’autorità indiscutibile, e la pia venerazione dovrebbe riguardare più l’insegnamento morale (ignorato pressoché totalmente) che la tecnica (e spesso si ignora pure quella). Si sente davvero poco spesso dire dai maestri: “il Maestro ha detto…” quanto piuttosto: “il Maestro la tale tecnica la eseguiva così… ho visto le foto. Ho la videocassetta”. La storia ha davvero la sua importanza, e non solo nel mondo marziale, per comprendere l’evoluzione. Non sarebbe più importante anche cercare di capire quale fosse l’insegnamento più ‘umano’ dei Maestri? Davvero l’insegnamento più profondo della tradizione si limita a riproporre tale e quale lo zenkutsudachi come si faceva più di cent’anni fa?
I cambiamenti (documentati) avvennero già in età non sospette dallo spauracchio dell’agonismo. Se ci fosse bisogno di prove, si pensi solo alle innumerevoli varianti di uno stesso kata (si è regolarizzata la grafia più nota ai praticanti italiani):
- di Bassai: Tomari-Bassai; Oyodomari no Bassai; Matsumura no Bassai; Itosu no Bassai; poi le varianti contemporanee, comprese lo sdoppiamento di Itosu confluito negli stili shorin che da lui dipendono, nello shotokan e nello shito in Bassai-sho e Bassai-dai.
- di Kushanku: Chatanyara no Kushanku; Sakugawa no Kushanku; Kuniyoshi no Kushanku; Chibana no Kushanku. Anche questo kata è stato sdoppiato da Itosu da cui è confluito nello shotokan e nello shito rispettivamente in Kanku-sho (Kosokun-sho) e Kanku-dai (Kosukun-dai)
- Chinto: Tomari-te Chinto; Kiyan no Chinto; Itosu no Chinto che è quello sviluppato (ovviamente con varianti anche di rilievo) nello Shotokan (Gankaku), nello Shito e nel Wado.
Come è facile arguire, per chi ha un po’ di pratica con i nomi dei maestri di Okinawa, le varianti sono indicate dai nomi dei rispettivi maestri che praticavano questi kata. Come a dire, enfatizzando ma non allontanandoci troppo dal vero se si osserva una cartina di Okinawa, un Bassai diverso quasi ogni isolato (tale la distanza che separa i villaggi di Naha, Shuri e Tomari*** verificare, si tratta davvero di un paio scarso di chilometri l’uno dall’altro), personalizzato da ogni maestro in funzione sua e/o della sua interpretazione (bunkai). I cambiamenti, dunque, ci sono sempre stati e sempre ci saranno. Certo, si obietta facilmente, un conto è cambiare un kata con una prospettiva ben definita e pratica (cambia il bunkai perché cambia l’approccio al combattimento) mentre cosa del tutto diversa è cambiare un gesto tecnico (spesso comunque incompreso) in un altro movimento altrettanto incomprensibile (o peggio: inattuabile [ma cfr. Otsuka che vuole andare ad Okinawa perché non comprende i movimenti dei kata di Funakoshi: poi studia pure con Mabuni e Motobu]) che però è più visibile nel contesto di una esecuzione sportiva. Obiezione legittima, ma forse poco meditata, cui si cercherà di dare una risposta nella prosecuzione del libro.
Direi quindi che il primo dogma da sfatare è l’immutabilità ad ogni costo della tecnica. Chissà per quale motivo, questa capacità intrinseca della tecnica di mutare e di evolversi, quasi di adattarsi ai cambiamenti socioculturali e morfologici dei praticanti di karate, è sembrata valida e al di fuori di ogni discussione per le tecniche del kumite, tant’è che oggi, volenti o nolenti, tutti gli stili hanno adottato lo stesso modello di combattimento (ossia quello della competizione, anche chi di gare solitamente non ne fa). La stessa cosa non si è verificata nel campo dei kata. Per molti l’evoluzione è una sorta di tabù per quanto riguarda le tecniche tradizionali. Forse questa omogeneizzazione dello stile nell’ambito del kumite ha ingenerato (credo involontariamente) questo aggrapparsi, a volte davvero fuori di luogo, alle posizioni del proprio stile e alla ‘tradizione’. Inizierei le mie riflessioni dalla parte cosiddetta destruens e vestirò contemporaneamente i panni dell’avvocato accusatore e difensore, perché questa è stata la parabola che mi ha condotto a interrogarmi su quesiti riguardanti anche l’antropologia del karate.
La prima domanda è la seguente: cos’è la tradizione che spesso invochiamo in nostro soccorso? Dubito che qualcuno possa credere di praticare il karate come lo praticavano Otsuka, o Funakoshi, o Mabuni o Miyagi o chiunque altro (queste persone dovrebbero allenarsi ben più di un paio di volte la settimana...).
E credo che nessuno lo vorrebbe poi fare veramente. Dunque, all’interno di ogni stile, l’evoluzione c’è stata (e non vedo perché dovrebbe interrompersi, ma questa non è un’argomentazione). La seconda domanda è invece questa, ed è un poco più imbarazzante: i maestri fondatori dell’ultima generazione (intendo almeno i quattro grandi appena citati) hanno trasmesso pedissequamente l’arte che avevano appreso dai rispettivi maestri? La risposta, come è noto, è negativa. È vero tutto il contrario: nessuno dei maestri fondatori dei quattro stili principali riconosciuti in Italia (e parlo delle personalità forse più in vista e meglio conosciute del karate mondiale) ha continuato verbum de verbo l’insegnamento dei propri maestri (a quei tempi non sospetti inoltre non era offensivo per nessuno aver più di un maestro, oggi invece pare che sia un peccato mortale, in ossequio al non rispetto della tradizione). Così non fu per Funakoshi (che passa più o meno giustamente per essere stato il più grande innovatore nonché padre del karate moderno, come del resto innovatore e genio forse ancor più grande di Funakoshi***citare i maestri con cui Funakoshi si allenava*: cito da pg. 27: “Intanto, io continuavo assiduamente col mio karate, allenandomi sotto diversi maestri: il maestro Kiuyna, che con le mani nude sapeva strappare la corteccia da un albero in un momento; il maestro Toonno di Naha, uno dei più conosciuti studiosi di Confucio dell’isola (int. di Okinawa); il maestro Niigaki, il cui grande buon senso mi impressionò profondamente; e il maestro Matsumura, uno dei più grandi karateka.” stesso fu per almeno uno dei due maestri più importanti della sua vita, (Anko Itosu) né tanto meno per Otsuka, che di Funakoshi fu uno dei migliori allievi (ma prima ancora di imparare il karate era stato designato come Gran Maestro e successore della scuola di Yoshin*** Ju-jutsu) e che venne a stretto contatto con lo Shitoryu di Mabuni e con il karate da combattimento di Motobu. Quindi è lecito affermare che questi quattro maestri hanno creato il karate moderno innovando una base sicuramente antica, o almeno mutando in funzione di specifiche esigenze (non ultime quelle di un combattimento sportivo, di cui Otsuka fu propugnatore). Hanno innovato, e sono stati indubbiamente dei grandi maestri. Non credo che qualcuno, sempre in ossequio alla tradizione, voglia mettere in dubbio questo fatto. Verrebbe quasi da dire che l’innovazione è nella natura stessa del karate. I maestri questo fatto l’avevano capito, e hanno sempre dichiarato che l’arte è costantemente in progress, essendo nata ad esclusivo vantaggio dell’uomo, anch’esso in continua evoluzione.
giovedì 1 gennaio 2009
Categoria +78Kg Campionati Italiani 2008
Iscriviti a:
Post (Atom)